Parlare da soli: cosa succede al cervello?

In ogni individuo si ravvisa, in maniera più o meno spiccata, la tendenza al soliloquio. Esternare dei pensieri che non hanno necessariamente bisogno di essere espressi tramite il linguaggio rappresenta, infatti, per alcuni un’abitudine consolidata, per altri un comportamento saltuario. Perché a volte si avverte l’esigenza di pronunciare frasi che nessuno ascolta? Quali elementi caratterizzano la summenzionata prassi? 

In primis, occorre specificare che una simile propensione non costituisce una consuetudine dannosa. Tale attitudine viene, in particolare, definita come un “discorso interiore” emerso per autofornirsi delle istruzioni o ricordare delle informazioni. Il chiacchiericcio che prende forma nella mente umana si rivela pressoché incessante e spesso per non dimenticare ciò che va fatto ricorriamo in modo del tutto automatico pure all’uso del registro uditivo.

I dati restituiti a proposito da alcuni test risultano parecchio significativi. Eseguendo una risonanza magnetica su un cervello pensante si può, in effetti, registrare in quest’ultimo la stessa attivazione neuronale presente quando si intavola una conversazione. Le zone encefaliche atte a bloccare il movimento dell’apparato fonetico paiono interdette in caso di stress; motivo per cui ci capita di parlare se temiamo di sbagliare o scordare qualcosa. 

La sopracitata propensione costituisce una pratica che ha sempre molto affascinato scienziati e psicologi. Già Vygotskij all’inizio del XX secolo osservò la maniera in cui l’uso del linguaggio si sviluppava nei bambini. In particolare, il ricercatore notò come il proferir frasi prendesse forma di pari passo con il discorso interiore assumendo all’inizio la forma di un monologo senza pubblico e poi, dopo i tre anni, i contorni di una comunicazione sociale. 

Oppenheim e Dell dimostrarono, tuttavia, in tempi recenti la maggiore complessità di una prassi del genere. Secondo tali studiosi, infatti, il dialogo intimo presenta delle caratteristiche ben lontane da quelle delle disquisizioni interpersonali perché più astratto e schematico. Gli esperimenti condotti da Fernyhough evidenziarono, quindi, la natura “a due” di detta tendenza che per il 60% dei testati si svolgerebbe tra se stessi e una diversa voce. 

Negli anni Duemila, la funzione primaria della sopracitata attività è stata espressa in termini molto precisi da Morin che, dopo tante ricerche dedicate alla materia, definisce simile attitudine come un valido modo per portare alla luce emozioni, ragioni, impulsi, comportamenti. Per Kross, inoltre, la dissertazione privata rappresenta la base di parecchie pratiche routinarie tra cui spiccano senza ombra di dubbio la preghiera e la meditazione.

Il dialogo che intratteniamo ogni giorno con la nostra persona si configura come il grande controllore di condotte e atteggiamenti, un grillo parlante capace di guidare e motivare. Il summenzionato soliloquio necessita, però, di un’attenta gestione; se da una parte ci induce, in effetti, a ricordare informazioni importanti, dall’altra ci spinge a pensare troppo. Cerchiamo, quindi, di farci amica questa intima voce: passiamo in sua compagnia circa un quarto del tempo trascorso da svegli, meglio andare d’accordo!

.

.

Noemi Servizio